G. combatte la paura in un modo che riconosco. Lui così sicuro, così saldo negli spazi che conosce, frana di fronte ai conflitti tra le persone che ama.
Succede che a volte si litighi in casa. Di solito a cena. I protagonisti dello scontro variano a seconda degli incroci, lui li soffre tutti. Indistintamente. E allora si infila veloce nel discorso, mette sul tavolo un aneddoto o una domanda esistenziale, alza il volume per farsi sentire o rompe il silenzio forzato. Lo immagino in piedi, grondante di sudore, a spostare grossi massi di pietra per far posto al suo ecosistema ideale. Che poi altro non è che una cena a quattro in serenità.
A guardarlo, vedo me bambina a capotavola tirar fuori dal cilindro il racconto perfetto per domare piccole o grandi vampate di rabbia. Poi di notte, alle prese con quel sogno ricorrente e assurdo di me, sola, negli studi televisivi di Drive In a mettere ordine in quello che doveva sembrarmi un gran caos.
Vorrei dirgli che un conflitto non sempre è un incendio. A volte, mette in luce crepe che si trasformano in sentieri. O aiuta a visualizzare ponti là dove sembrava impossibile guadare il fiume. Ma soprattutto che non spetta a lui trasportare l’acqua per spegnerlo.